Trovò la moglie in auto con un altro: revocato il porto d’armi

© Andriano.CZ

Pesa la querela dell’ex consorte, anche se poi ritirata: la donna denunciò “la reazione violenta del marito nei confronti dell’uomo con il quale ella si intratteneva”.

Il Tar di Trento propende per la revoca del porto d'armi a un cacciatore che trovò la moglie in intimità con un amico di famiglia nel parcheggio di un centro commerciale: pesa la querela presentata dalla moglie subito dopo l'episodio.
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Il giudizio di non completa affidabilità emesso dalla questura “non è censurabile”. E pertanto il Tar di Trento ha confermato la revoca del porto d’armi a un cacciatore del luogo che nell’autunno 2015 trovò “la moglie in intimità con un amico di famiglia all’interno dell’autovettura di quest’ultimo” nei pressi del parcheggio di un centro commerciale di Pergine Valsugana: sulla decisione di questura e Tar pesa soprattutto la querela presentata dalla moglie, anche se ritirata appena otto giorni dopo. La donna denunciò “la reazione violenta del marito nei confronti dell’uomo con il quale ella si intratteneva” e un precedente episodio, risalente al 2008. Secondo i giudici amministrativi non conta che il cacciatore, che aveva l’arma da almeno 15 anni, “adesso abiti in un proprio appartamento e viva serenamente il rapporto con i figli e, nei limiti delle necessità di costoro, con l’ex consorte”.

La caccia è un’attività voluttuaria

Né può assumere rilievo la condotta complessiva – “che pure potrebbe apparire contraddittoria” – della moglie che, oltre a ritirare la querela, ha reso una dichiarazione in cui non si è opposta al rilascio della licenza di porto d’armi all’ex marito. “Non spetta certo alla consorte (o agli amici di famiglia che hanno rilasciato le dichiarazioni in atti)”, scrive il Tar, “stabilire se il ricorrente debba essere o meno titolare di una licenza di porto d’armi”; e in più la nuova dichiarazione “non vale certo a smentire i fatti da ella riferiti al momento della presentazione della querela, né vi è motivo di dubitare della credibilità della dichiarazioni allora rese che, laddove ne fosse stata accertata la falsità, avrebbero integrato gli estremi del reato di calunnia”. A far propendere definitivamente i giudici trentini per il diniego del porto d’armi spunta poi la destinazione d’uso dell’arma, “funzionale a un’attività voluttuaria come la caccia e non già a un’attività lavorativa”: la circostanza “sposta il punto di equilibrio tra le esigenze di sicurezza della collettività e le istanze dell’interessato”.