Divieto di porto d’armi e condanne penali: la sentenza della Corte costituzionale

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Il vecchio articolo 43 del Tulps, che stabiliva automaticamente il divieto di porto d’armi in caso di condanne per alcuni reati, non è incostituzionale. Ma la Direttiva armi, così come recepita nell’ordinamento italiano, lo ha ammorbidito. La Consulta scioglie il nodo.

È legittimo imporre automaticamente il divieto di porto d’armi a chi, anche se riabilitato, si è macchiato di reati gravi. Ma la nuova Direttiva armi recepita in Italia ha ammorbidito l’articolo 43 del Tulps, rendendo possibile una valutazione discrezionale. Respingendo il ricorso dei Tar di Toscana e Friuli Venezia Giulia, la Corte costituzionale appone il timbro dell’ufficialità sull’interpretazione ora prevalente: l’ultima modifica della legge “attenua la rigidità della preclusione” nei confronti di chi sia stato condannato per uno dei reati previsti dall’articolo 43 del Tulps. La nuova Direttiva armi “ripristina infatti un potere discrezionale dell’autorità amministrativa” in caso di riabilitazione dopo la condanna penale.

Nondimeno, il divieto automatico non è incostituzionale. Il legislatore, lui sì, deve vedersi sempre riconosciuto “un ampio margine di discrezionalità” quando regolamenta i criteri per la concessione e il divieto di porto d’armi. E può “declinare diversamente il bilanciamento tra i contrapposti interessi in gioco”. Una disciplina particolarmente severa come quella in vigore fino all’anno scorso, si legge nella sentenza 109/2019, non può dunque ritenersi “manifestamente irragionevole”.