Legittima difesa abitativa: un piano di resistenza in 3 azioni

legittima difesa abitativa

Abbiamo scelto l’arma e abbiamo acquisito dimestichezza con il suo funzionamento. Le prove in poligono ci dicono che abbiamo scelto il munizionamento giusto. E ora? Se si dovesse mai concretizzare l’incubo peggiore, la necessità di difendersi?

E se una notte dovessimo svegliarci di soprassalto avvertendo una presenza in casa? La cosa più importante da fare, in un’evenienza di questo tipo, sarà avere una strategia che permetta di reagire alla minaccia in maniera misurata. Sapere cosa fare e come farlo. Avendo ben presente che la priorità numero 1 sarà sempre la salvaguardia dell’incolumità di sé e dei propri cari. In questo contesto, quindi, lo scontro a fuoco è l’ipotesi più indesiderabile.

Una semplice strategia di legittima difesa abitativa prevede 3 azioni

La prima azione, quella preventiva

Come prima azione, gli americani suggeriscono di predisporre un piano di difesa abitativa (home defense plan) da condividere con tutti i componenti del nucleo familiare e organizzare una stanza dell’abitazione, quella maggiormente protetta, come una safe room.

Una stanza in cui vi sia tutto quanto è necessario per opporre un minimo di resistenza:

  1. un’arma,
  2. un caricatore di riserva,
  3. una torcia (fondamentale per l’eventuale identificazione del bersaglio e per accecarlo),
  4. un telefono cellulare.

La prima cosa da fare, nel caso l’evento si verificasse, sarà quella di riunire il gruppo familiare nella safe room, acquisire una posizione dominante e successivamente contattare le forze dell’ordine.

Mostrarsi armati e intimare all’aggressore di allontanarsi (in Italia si parla di desistenza) potrà essere utile ma è un fattore di rischio. Se il malintenzionato volesse concludere la sua azione con un rapimento o prendendo in ostaggio un membro della famiglia, una resistenza attiva in fase iniziale potrebbe generare una sua reazione incontrollata. Che potrebbe portare a conseguenze imprevedibili; chi subisce l’aggressione è infatti sempre colto di sorpresa, in condizioni di fragilità, mentre chi la pratica ha il vantaggio di aver potuto ideare un piano e ha dalla sua l’effetto sorpresa.

Inutile quindi fare gli eroi, molto meglio fuggire o barricarsi nella safe room preparandosi a resistere, non abbandonandola fino all’arrivo dei rinforzi e rispondendo al fuoco se necessario.

La seconda fase, inizia la resistenza

Raggiunta la safe room, si dovranno allertare le forze dell’ordine chiamando il numero unico di emergenza (112, in Italia corrisponde ai Carabinieri, il 113 della Polizia sarà altrettanto valido) e, dopo aver declinato le proprie generalità, indicare indirizzo, modalità dell’effrazione, componenti del nucleo familiare (anche come sono vestiti, dovesse mai verificarsi un’irruzione della forza pubblica) e tutte le informazioni disponibili a proposito degli aggressori, in particolare il loro numero e se siano armati.

Sarà poi necessario porsi in attesa nell’angolo opposto a quello da cui gli assalitori potrebbero violare la safe room, l’angolo cieco dal quale controllare gli accessi alla stanza e, al tempo stesso, essere individuati il più tardi possibile.

La terza fase: l’attesa o il conflitto a fuoco

Se avremo la fortuna di aver conseguito questa posizione dominante, inizierà una fase d’attesa. Che potrà concludersi o con la fuga degli aggressori o con uno scontro a fuoco. In questo secondo caso, sempre negli stati Uniti è molto popolare il cosiddetto metodo Cooper.

John Dean “Jeff” Cooper (10 maggio 1920 – 25 settembre 2006), già marine degli Stati Uniti, può considerarsi l’inventore delle tecniche moderne di tiro tattico con armi corte. Nel 1976 fondò l’American Pistol Institute (API, successivamente Gunsite Academy) in Paulden, Arizona, dove ha insegnato tecniche di tiro sia a personale militare sia ai civili.

La metodologia da lui elaborata prende spunto da tecniche precedenti e ne sviluppa di nuove. Prevede che l’arma – possibilmente una semiautomatica di grosso calibro – sia presa con due mani e portata all’altezza degli occhi così da collimare più velocemente mire e bersaglio. Il metodo Cooper è formato da vari componenti.

  1. Anzitutto la posizione Weaver (Weaver stance): questa posizione di combattimento prevede la presa della pistola a due mani e una posizione dei piedi simile a quella dei combattenti di boxe;
  2. l’utilizzo del solo mirino per prendere la mira (The flash sight picture): i piccoli aggiustamenti sono dettati dal subconscio del singolo tiratore;
  3. l’utilizzo consapevole dello scatto (Compressed surprise break): con questa tecnica il grilletto viene premuto gradualmente.
    Ciò permette di evitare strappi e tutte quelle situazioni che possono compromettere la stabilità dell’arma.

Molta importanza è inoltre attribuita alla prontezza della risposta che si basa sullo stato mentale del soggetto (Color code).

Si deve sempre a Jeff Cooper la standardizzazione delle 4 regole internazionali di sicurezza nel maneggio delle armi:

  1. le armi devono essere considerate sempre cariche,
  2. non puntare mai la volata verso qualcuno o qualcosa che non si voglia colpire,
  3. non mettere il dito sul grilletto finché il mirino non è sul bersaglio,
  4. identificare il bersaglio e cosa c’è vicino a esso.

La posizione Weaver prende il nome dal californiano John “Jack” Harold Weaver, per anni vice sceriffo della contea di Los Angeles, la cui peculiare posizione di tiro e i suoi metodi di maneggio attirarono l’attenzione nelle competizioni a estrazione veloce inaugurate da Cooper.

Egli individuò la soluzione per contrastare rilevamento e rinculo delle armi di grosso calibro nello sparare utilizzando un’impugnatura a due mani, con anche la mano debole intenta a contrastare l’energia sviluppata dalla cartuccia durante lo sparo.

Così è nata la posizione Weaver, a due mani; il braccio forte è disteso, l’altro leggermente piegato, la mano debole è posizionata a fasciare la mano forte, per acquisire stabilità supplementare tramite una contrazione del corpo isometrica: la mano debole tira l’arma mentre la mano forte la spinge. Chiunque abbia provato questa tecnica in poligono avrà constatato che la contrapposizione delle forze applicate sull’impugnatura aumenta la velocità del ri-allineamento.